Tra il dire e il fare

Non giocarti la vita e scommetti su te stesso: quando il gioco diventa un problema…

La parola azzardo deriva dall’arabo az-zahr che significa “dado” con un chiaro riferimento all’uso di questi antichi oggetti per sfidare la sorte in giochi in cui si scommette sul risultato per sfidare la sorte in giochi in cui si scommette sul risultato del loro lancio. Questa attività cosi antica si differenzia indubbiamente dai giochi praticati da bambini e adulti come passatempo o come sport. Sebbene in qualsiasi gioco il fattore aleatorio, ovvero il caso, svolga un ruolo da non sottovalutare, nel gioco d’azzardo si gioca proprio contro la sorte. Si punta del denaro, che non si potrà poi riavere indietro e si scommette che quel dato evento finirà in un determinato modo. L’osservazione clinica del gioco d’azzardo ha cominciato ad apparire sulle riviste scientifiche all’inizio del ‘900; tuttavia, ad oggi è ancora difficile delineare una linea consensuale tra i vari approcci che si sono interessati delle cause sottostanti i vari gradi di coinvolgimento delle persone nel gioco d’azzardo. Freud, ad esempio, interpretò la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione, guidata dal bisogno di perdere, al fine di alleviare il senso di colpa dato dal complesso edipico; il gioco, inoltre, rappresenterebbe una trasformazione simbolica del bisogno (e vizio) masturbatorio infantile – analogia che verrà poi ripresa da diversi autori psicodinamici. La teoria comportamentista, invece, sulla base della teoria di Skinner e dalle riflessioni sullo stimolo intermittente, spiegò che il giocatore, rinforzato dall’eccitazione associata ai momenti della “puntata” e da vincite casuali anche relativamente infrequenti, sarebbe spinto a ritentare, sviluppando e mantenendo così il desiderio di giocare fino a raggiungere un livello patologico – in quest’ottica, più tentativi corrispondono a maggiore eccitazione e maggiore possibilità di vincita. Ancora, secondo il modello cognitivista, l’origine del coinvolgimento sarebbe da attribuire ad una sorta di pensiero magico (quindi irrazionale), in cui ogni giocata è vista come indipendente da quelle precedenti, ha una propria possibilità di vincita e porta il giocatore a sviluppare la sensazione che ogni partita sia quella vincente, credendosi esperto, capace e imbattibile, senza essere in grado di riconoscerlo come fonte di perdite finanziarie e sofferenze emotive – e soprattutto come il puro effetto del caso.

Giocare d’azzardo può creare dipendenza. Non rappresenta dunque un vizio, ma una vera e propria patologia, che tuttavia può essere curata. Spesso però è faticoso e non proprio semplice abbandonare una serie di comportamenti e pensieri che in un primo momento hanno procurato piacere e divertimento.

Una volta che si è smesso di giocare, succede un po’ come per un grande amore ormai finito: se dopo tanto tempo incontrate per strada la vostra vecchia fiamma probabilmente vi farà ancora effetto ricordare i bei momenti vissuti insieme, ma se siete preparati, dopo un primo turbamento riprenderete tranquillamente il vostro cammino, senza far nulla di cui poi potreste pentirvi.

Alcune ricerche hanno portato alla scoperta che esistono delle basi biologiche che predispongono determinate persone a giocare d’azzardo: si tratterebbe di uomini e donne con una certa propensione al rischio e alla ricerca di sensazioni forti. Ma il gioco risulta anche essere un comportamento appreso, perché fin da piccoli, nell’ambiente familiare oppure durante lo sviluppo in età adulta, si può essere espositi al gioco d’azzardo e trovarlo assolutamente normale. La

rima volta che una persona entra in un casinò, si siede davanti a una slot machine o traccia dei segni su una schedina, non ha affatto le idee chiare su quel che sta facendo. Spera di vincere, questo è certo, ma per il resto non pensa ad applicare particolari strategie. Molte persone giocano una volta alle slot, si stufano e se ne vanno, anche se vincono; altre invece provano qualcosa di diverso, rimangono segnate da quell’esperienza e iniziano un continuo pellegrinaggio verso luoghi del piacere, del divertimento dell’alienazione. Spesso alla fine del percorso si ritroveranno con un pugno di mosche in mano, molti debiti e tanta sofferenza ma all’inizio quegli effetti sono ancora troppo lontani e non possono spaventarlo. Presto tali individui diventano dei veri esperti del gioco, arrivando a conoscere, o pensando di conoscere tutti i trucchi per vincere. Peccato però che non funzionano quasi mai. Spesso, i familiari dei pazienti arrivano in studio da me, chiedendomi se è più giusto smettere un pò alla volta o troncare di netto….la mia risposta, di fronte ad un familiare ormai disperato, è che occorre prendere coraggio a quattro mani e dirsi che non è più opportuno continuare a giocare. Credere che si giocherà sempre meno, che un giorno ci si sveglierà non avendo più voglia di giocare è un pensiero non realistico. Molte persone smettono di fumare scalando pian piano il numero di sigarette, altre raccontano di aver smesso da un giorno all’altro. Nel caso del gioco d’azzardo il problema di adottare un approccio a scalare è che nel frattempo continuano ad attivarsi tutti i meccanismi del gioco, per non parlare delle vincite che si possono sempre verificare anche durante quel processo. Se mentre state diminuendo progressivamente il numero di volte in cui giocate, fate una vincita, che cosa potrà facilmente accadere? Senza essere Nostradamus credo proprio che riprenderete a giocare più di prima. Quindi occorre non giocare neanche più un euro a nessun gioco d’azzardo perché per quanto sia pesante, questa è l’unica strategia efficace in un percorso di vero cambiamento, un percorso sicuramente non facile, per questo l’aiuto e il sostegno psicologico, insieme ad u percorso di ad un sostegno farmacologico (in alcuni casi) possono aiutare il soggetto . Quasi tutti gli autori concordano nel considerare i vari livelli del gioco come diversi momenti di un unico continuum: molti giocatori non giungeranno a sperimentare aspetti patologici connessi al gioco d’azzardo; altri, invece, svilupperanno un comportamento che affliggerà pesantemente la loro vita e quella dei loro cari, con importanti ripercussioni finanziarie e sociali.

Ecco, quindi, che è possibile individuare tre dimensioni principali: sociale, problematica e patologica.- I giocatori sociali sono giocatori non problematici, che giocano in maniera occasionale o abituale solo per divertirsi o per rilassarsi; scelgono solitamente giochi lenti, sono attratti dal rischio e dalla vincita ma sono in grado di smettere di giocare in qualunque momento.- I giocatori cosiddetti problematici sono coloro che non hanno un pieno controllo del gioco, il quale inizia a compromettere, infrangere o danneggiare l’ambito personale, familiare e/o sociale, ma non arrivano a perdere totalmente il controllo; essi sono, tuttavia, fortemente a rischio di sviluppare un comportamento di gioco patologico. Infine, i giocatori patologici sono quelli che la maggior parte degli autori definisce con un’incontrollabile brama di giocare – che può essere paragonata al craving sperimentato da coloro che sono dipendenti da sostanze. Lo stato di euforia e di eccitazione provato da questi soggetti è, infatti, fortemente comparabile con quello indotto dalla cocaina o da altre sostanze stimolanti. In generale, essi sperimentano una modalità di gioco ad alta frequenza e per lunghi periodi fino ad una perdita di controllo del comportamento di gioco che li porta a debiti sempre più pesanti e ad una progressiva pervasività del gioco nella loro vita. Essi sono

consapevoli che il gioco li compromette sul piano relazionale, affettivo e personale, ma sono totalmente dipendenti e incapaci di resistere all’impulso di giocare.

I giocatori patologici sono solitamente descritti come impulsivi, stravaganti e disordinati, con maggiori tratti di estroversione, novelty-seeking (la tendenza a ricercare esperienze nuove e ad evitare attivamente la monotonia) e sensation-seeking (la tendenza a ricercare il rischio e le esperienze eccitanti) rispetto alla popolazione generale; presentano tratti di bassa sensibilità e altruismo, maggiore distacco sociale e preferenza per le ricompense materiali. Ancora, sembrano più inibiti verbalmente e meno portati ad esprimere sensazioni, sentimenti e paure e più portati, invece, a mascherare le proprie emozioni – questo potrebbe essere spiegato considerando il ruolo sociale e lo stile di vita che il giocatore deve mantenere al di fuori del mondo del gioco, poiché costretto a chiudersi e mentire anche alle persone a lui più vicine. Il gambling è spesso associato a ipomania, disturbo bipolare, abuso di sostanze psicoattive e alcool, disturbi di personalità (soprattutto di cluster B e C), deficit dell’attenzione con iperattività, oltre che a depressione e ansia (soprattutto attacchi di panico), spesso accompagnata da sintomatologia somatica – molto comuni sono i disturbi fisici associati allo stress quali ulcera peptica e ipertensione arteriosa. Come ogni altra dipendenza, l’insorgenza di comportamenti patologici di gioco non può essere attribuita ad una singola causa, ma è bensì la conseguenza dell’interazione di fattori individuali demografici, neurobiologici, cognitivi, emotivi, esperienziali; ambientali e culturali. La presenza di genitori con problemi di gioco, così come la frequentazione di giocatori patologici, sono due dei fattori di rischio più determinanti e facilitanti l’ingresso nella patologia. Un ruolo primario tra i fattori psicologici sembra detenerlo il tratto di sensation-seeking: in questo senso, giocare d’azzardo sarebbe un modo per provare nuove esperienze, uscire dalla noia della vita quotidiana e soddisfare il desiderio di provare emozioni eccitanti e forti.

Riferimenti bibliografici

Caillois R. (1967) I giochi e gli uomini, Milano: Bompiani, 1995

Caretti V., La Barbera D. (2005) Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia, Milano: Raffaello Cortina Editore

Savron G., Pitti P., De Luca R., Guerreschi C. (2001) Psicopatologia e gioco d’azzardo: uno studio preliminare su un campione di Giocatori d’Azzardo Patologici, Rivista di psichiatria, 36(1):14-20

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